
L’America riparte dalle fabbriche: cosa aspettarsi dal nuovo corso dell’industria USA
Quanto è realizzabile il piano di Trump per il ritorno della produzione entro i confini nazionali? Ne parliamo con Paolo Gila
Introduzione
Dopo decenni di globalizzazione, delocalizzazione e catene di fornitura globali, la politica industriale americana cerca oggi un’inversione di rotta: il ritorno della produzione entro i confini nazionali. È questo il cuore della cosiddetta Trumpnomics, ovvero l’approccio economico promosso da Donald Trump che punta a rilanciare l’industria statunitense e a contenere la crescente fragilità finanziaria degli Stati Uniti.
A parlarne su FinanceTV – Le Voci dell’Economia è Paolo Gila, giornalista economico e osservatore attento delle dinamiche industriali e geopolitiche. Con lui abbiamo esplorato i limiti e le contraddizioni di una strategia ambiziosa: il reshoring su scala nazionale.
Il reshoring come risposta alla crisi del debito USA
Gli Stati Uniti registrano oggi un debito pubblico superiore a 36.000 miliardi di dollari, con interessi annui che sfiorano i 950 miliardi. Questo scenario preoccupa i mercati internazionali e mina la fiducia nei Treasury Bond. L’obiettivo implicito di Trump è quindi chiaro: ridurre il rapporto debito/PIL aumentando il PIL stesso attraverso la rinascita dell’economia reale.
Come? Attraverso:
Dazi commerciali per scoraggiare le importazioni e incentivare la produzione interna;
Tagli fiscali per rendere più attrattivi gli investimenti produttivi;
Pressione sulla Federal Reserve per favorire politiche monetarie più espansive.
Ma questa visione è davvero realizzabile?
Industria americana: è davvero possibile ricostruire le filiere?
Il cuore della sfida è industriale. Molte delle grandi filiere produttive americane – dall’automotive all’elettronica – si sono disgregate nel tempo, migrando verso paesi come Taiwan, Vietnam e Cina. Oggi ricostruirle significherebbe:
Reimportare interi settori industriali: acciaierie, industria della gomma, componentistica, microchip.
Acquistare macchinari e tecnologie non più prodotti negli USA ma in paesi come Giappone, Germania e Italia.
E qui nasce il paradosso: i dazi imposti per proteggere l’industria locale rischiano di aumentare i costi di quei macchinari essenziali al reshoring stesso. Una strategia che si morde la coda, aggravando il fabbisogno finanziario e rendendo difficile la sostenibilità economica degli investimenti industriali.
Geopolitica e industria: un equilibrio precario
Il contesto globale è un altro elemento chiave. Le tensioni commerciali con Cina e UE, il disallineamento con le banche centrali e il crescente ruolo di paesi emergenti nel settore manifatturiero complicano ulteriormente il quadro.
La mancanza di chiarezza strategica di lungo periodo, essenziale per gli imprenditori, si scontra con una visione politica spesso zigzagante e subordinata agli obiettivi elettorali.
Conclusione: il reshoring è un processo, non uno slogan
L’intenzione di Trump è netta: riportare la manifattura in America. Ma il reshoring non può essere una semplice dichiarazione di intenti. Richiede:
Visione di lungo termine,
Sostegno finanziario strutturale,
Politiche coordinate tra industria, fisco e innovazione.
Nel contesto attuale, rischia di restare un’illusione costosa più che una reale trasformazione economica. La sfida per l’America – e per il resto del mondo – è costruire un modello di sviluppo industriale sostenibile, compatibile con un’economia multipolare e digitalizzata.
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